AUSCHWITZ: DA 999 a 40 28 Gennaio 2021 – Posted in: Momenti – Tags:

Auschwitz: le prime donne deportate furono 999 ragazze slovacche.

Auschwitz fu inaugurato dai nazisti il 26 marzo 1942 con quasi mille donne. Il giorno della liberazione, il 27 gennaio 1945, ne erano sopravvissute circa quaranta.

Ecco la loro storia. E perché furono 999 prigioniere, e non mille.

Il campo di Auschwitz fu liberato il 27 gennaio 1945. Questa data è commemorata ogni anno come il Giorno della Memoria dell’Olocausto.

Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. In occasione del Giorno della Memoria, commemoriamo le vittime dell’Olocausto con una storia poco conosciuta, tutta al femminile, tratta dall’articolo “Le prime 999 prede di Auschwitz” di Massimiliano Griner, pubblicato su Focus Storia n. 161

SUI VAGONI BESTIAME

Auschwitz, 26 marzo 1942: 999 ragazze stremate, disorientate e spaventate vengono scaraventate giù dai vagoni bestiame sui quali hanno viaggiato per giorni. Vengono dalla Slovacchia, sono ebree, nubili, giovani: hanno dai 16 ai 36 anni. La maggior parte di loro non ha mai lasciato il villaggio, né la famiglia, prima di allora. Per molte questo è il primo (e ultimo) viaggio. La storia di queste ragazze è rimasta sepolta nel silenzio per anni, fagocitata nel bilancio dell’orrore che tutti conosciamo: un milione di esseri umani entrarono nel campo di concentramento della Polonia occupata, pochi ne uscirono vivi.
Eppure, queste donne rappresentano la prima deportazione ufficiale nell’ottica della Soluzione finale, pianificata alla Conferenza di Wannsee solo due mesi prima, il 20 gennaio 1942. Una sorta di “prova generale” dell’annientamento. A raccontare questa oscura pagina di storia è la scrittrice americana Heather Dune Macadam che, dopo anni di ricerche negli archivi e interviste alle sopravvissute, ha scritto il libro Le 999 donne di Auschwitz (Newton Compton).

INGRESSO ALL’INFERNO

Caricate su carri bestiame a suon di insulti e percosse – arrampicarsi era difficile per chi indossava gonne –, le ragazze slovacche avevano viaggiato ammassate per ore e ore prive di viveri, al freddo, ignare della loro destinazione. Nei giorni precedenti il viaggio erano state chiuse in palestre o caserme, senza cibo né acqua, per cui erano già provate quando salirono sul treno. Appena arrivate furono private dei bagagli, denudate, rasate a zero, tatuate con un numero di matricola e rivestite con divise militari appartenute ai soldati sovietici uccisi, ancora intrise di sangue essiccato.
«Essere denudate a forza davanti a degli uomini», ci dice Dune Macadam, «sarebbe orribile anche per le donne di oggi. Ma le slovacche erano soprattutto adolescenti e ragazze all’antica, molto religiose. Nelle loro testimonianze di solito non menzionano questa violazione, e questo ci fa capire quanto sia stato degradante». Ad alcune andò anche peggio. I nazisti, a caccia di gioielli o preziosi, sottoposero decine di ragazzine a un’ispezione ginecologica, deflorandole brutalmente. Quando finalmente capirono che erano tutte ragazze vergini, e quindi che non potevano occultare alcunché, sospesero le “visite”.

Soltanto qualche giorno prima l’ordine di presentarsi in appositi centri di raccolta le aveva strappate alle loro famiglie e alla loro quotidianità. Sarebbero state impiegate per tre mesi in una fabbrica di scarpe all’estero, avevano detto loro. Una menzogna alla quale le ragazze e quasi tutte le famiglie credettero. «Non sappiamo con certezza chi abbia suggerito che la Soluzione finale dovesse iniziare proprio con giovani donne ebree non sposate», ci precisa Dune Macadam. «Fu probabilmente subito dopo la Conferenza di Wannsee, del 20 gennaio 1942, dove fu decisa la dinamica dell’annientamento. In ciò che resta della trascrizione di quello che fu detto non c’è alcuna menzione di giovani donne, perciò l’ordine di preparare un campo femminile ad Auschwitz deve essere venuto direttamente dal capo delle Ss Heinrich Himmler dopo la conferenza».

PROPAGANDA DI REGIME

L’ordine di presentarsi al Municipio per registrare le ragazze dai 16 ai 36 anni nubili aveva preoccupato ma non allarmato le famiglie. Sembrava l’ennesimo, iniquo provvedimento, a cui gli ebrei slovacchi erano stati sottoposti negli ultimi mesi: divieto di gestire imprese, divieto di mandare i figli a scuola, divieto di farsi curare in ospedale, obbligo del coprifuoco e della stella gialla… Ad accompagnare i provvedimenti c’era stata la martellante propaganda del regime con la quale si era preparato il terreno, diffamando gli ebrei come stupratori, assassini di bambini, ladri.
Vicini di casa un tempo amichevoli avevano prima tolto il saluto agli ebrei, poi avevano cominciato a osteggiarli in ogni modo. Anche per questo molte delle ragazze chiamate “a lavorare” erano felici della prospettiva di lasciare le loro case e andare temporaneamente all’estero. In occasione di quel viaggio, le madri avevano scelto per le figlie gli abiti migliori e lavato i loro capelli con l’acqua piovana, per renderli più belli e morbidi. Nessuno immaginava l’inferno che le aspettava in quell’oscuro angolo della Polonia occupata dai nazisti.

La Slovacchia era un piccolo Stato che aveva conquistato una formale indipendenza soltanto nel 1939, come vassallo del Terzo Reich. Il presidente, Jozef Tiso, sacerdote cattolico e fervente nazionalista, non chiedeva di meglio che mostrare gratitudine ai nazisti. Le misure adottate nei confronti degli ebrei slovacchi pero assecondavano anche un diffuso antisemitismo locale, fomentato dalla Guardia di Hlinka, un corpo paramilitare con compiti di polizia politica. Adesso, pur di disfarsi dei propri ebrei consegnandoli agli aguzzini nazisti, la Slovacchia era pronta anche ad accollarsi tutte le spese di trasferimento in Polonia.

A PIEDI NUDI NELLA NEVE

Situata sul sinuoso corso del fiume Soła, ai piedi di un pittoresco castello medievale, Oswiecim era stata solo una graziosa cittadina fino a quando i tedeschi la scelsero per fondare il campo di Auschwitz. Era una macchina cieca votata a due soli obiettivi: contribuire allo sforzo bellico tedesco, producendo, tra l’altro, gomma artificiale, e annientare in relativa segretezza ebrei europei, dissidenti, rom, omosessuali e altre persone non gradite attraverso denutrizione, malattie e camere a gas. Non prima pero di averli sfruttati fino all’esaurimento fisico.
All’epoca le donne non erano ritenute forti quanto gli uomini, ma la realtà avrebbe mostrato che era un pregiudizio: le ragazze slovacche furono esposte a interminabili appelli nell’alba gelida, dove bisognava spalmare grasso d’oca nelle narici, quando ce n’era, per evitare che il naso sanguinasse; furono costrette a camminare a piedi nudi nel fango e nella neve e a lottare per minuscole razioni di cibo. Colpite da punizioni arbitrarie, vennero impiegate per lavori durissimi: bonificare terreni, trasportare terriccio e materiale edilizio o smantellare edifici, tutto con la sola forza delle braccia. Chi riusciva a farsi assegnare il compito di trascinare i cadaveri nelle fosse comuni, poteva considerarsi fortunata.

Nelle camerate non c’era riscaldamento, ne brande. Solo paglia lurida, piena di pulci e cimici, sparsa sul pavimento. E dieci gabinetti per più di novecento ragazze. In queste condizioni, la morte era più che un’eventualità, tanto che le autorità del campo costringevano le ragazze a scrivere rassicuranti cartoline post-datate da inviare alle famiglie, che spesso arrivavano quando le mittenti non erano più al mondo. Le aguzzine delle ragazze slovacche erano detenute tedesche provenienti dal campo di Ravensbruck. Molte erano criminali comuni, ma tra loro c’erano anche oppositrici del regime, testimoni di Geova e omosessuali. Alcune diventarono kapò, felici di ricevere dalle Ss «carta bianca per punire, stremare, picchiare e uccidere le giovani ragazze e donne ebree». Anche loro, come le deportate slovacche, erano 999.

PERCHÉ 999

Dune Macadam non pensa che il ricorrere di questo numero sia una semplice coincidenza: «Non credo che Himmler abbia fatto nulla per caso. Non solo “999” ha un significato numerologico (il 9 è un numero ombra, cioè con connotazioni negative: tre nove insieme, nel caso dell’Olocausto, indicherebbero un desiderio di porre fine a qualcosa), anche le date dei trasporti erano state individuate in giorni astrologicamente favorevoli. I nazisti d’altronde erano estremamente superstiziosi e avevano ogni sorta di credenze bizzarre».
A questa terribile prova sopravvissero solo le ragazze più fortunate o intraprendenti. Come quelle che, per esempio, riuscirono a schivare i lavori pesanti all’aperto: la fatica, il freddo e la mancanza di calzature adeguate (una ferita al piede poteva costare la vita) portavano entro breve a morte certa. Le più fortunate trovarono lavoro nel “Canada”, il luogo del campo dove venivano smistati i beni depredati agli ebrei. Coperte, cappotti, occhiali, stoviglie, attrezzature mediche, scarpe, orologi… tutto veniva caricato su treni di ritorno in Germania, per essere ridistribuito alla popolazione o ai soldati tedeschi. Chi aveva la fortuna di lavorare qui dentro, era meno esposto al freddo, alle arbitrarie violenze delle Ss e alla fame, perché capitava di poter mettere le mani sul cibo che i deportati avevano infilato nei bagagli.

SOPRAVVISSUTE

Il giorno della liberazione di Auschwitz, il 27 gennaio 1945, delle ragazze ne erano sopravvissute circa una quarantina. Per loro la fine dell’incubo fu anche l’inizio di una nuova, pericolosa odissea per tornare a casa (sempre che ci fosse ancora una casa ad attenderle), esposte al rischio di essere stuprate da quegli stessi soldati russi che le avevano liberate. Ria Hans, che aveva lavorato nell’infermeria di Josef Mengele e aveva assistito a esperimenti su cavie umane, facendo di tutto per salvare il maggior numero di ragazze possibile, percorse a piedi oltre mille chilometri. Al suo arrivo, nell’agosto del 1945, pesava trentanove chili. Fu una delle poche a trovare i genitori ancora vivi. Moltissime ragazze, appreso che la loro famiglia semplicemente non esisteva più, preferirono emigrare, disperdendosi un po’ ovunque nel mondo.

(Fonte Focus.it)