GRAMMATICA ITALIANA – LE FIGURE RETORICHE 16 Giugno 2021 – Posted in: Grammatica – Tags: ,

LE FIGURE RETORICHE

Le figure retoriche sono frasi utilizzate fin dall’antichità per rendere più vivace ed espressivo il discorso. Esse mirano a colpire il lettore o l’ascoltatore alterando la consueta costruzione dei periodi. Non a caso si definiscono rètori coloro che eccellono nell’uso della parola, affascinando con la loro prosa gli interlocutori o un vasto pubblico. A volte, questi “escamotage” hanno lo scopo di chiarire il messaggio ricorrendo a espressioni non comuni che, tuttavia, vengono recepite e comprese con maggiore facilità.

Poiché si tratta di una forma di comunicazione al di fuori dell’ordinario, che richiede una buona dose di padronanza della lingua, le figure retoriche vengono usate spesso da oratori (ad esempio i politici), da letterati e soprattutto dai poeti.

Le più note figure retoriche si distinguono in fonetiche e semantiche (cioè inerenti al significato): le prime manipolano i suoni delle parole; le seconde mutano il significato dei vocaboli.

Le principali figure retoriche di tipo fonetico sono le seguenti

L’allitterazione è la ripetizione di una stessa vocale, consonante o sillaba all’interno del verso: “E nella notte nera come il nulla” (Giovanni Pascoli). La lettera “N” dà una cadenza alla frase e le conferisce un senso di negazione, richiamandosi a “né” o a “no”.

L’assonanza è la ripetizione delle stesse vocali nella parte finale di due o più parole, a cominciare dalla vocale accentata: fame e pane, agòsto e conòsco, mentre le consonanti possono essere diverse.

La consonanza è la ripetizione delle stesse consonanti nella parte finale di due o più parole, a partire dalla vocale accentata: porti / certo, oppure parco / forca.

L’omoteleuto (o omoteleuto) si ha quando si verifica una identità di suono alla fine di due o più parole poste in posizione simmetrica: “Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?” (titolo di un dipinto di Paul Gauguin). La rima è un caso di omoteleuto.

L’onomatopea è una parola che riproduce un suono, un rumore o un verso (il gra gra delle rane, il din don delle campane), oppure che lo evoca (fruscìo, miagolìo, squittire, frinire, ticchettìo).

La paronomasia (chiamata anche bisticcio o annominazione) consiste nell’accostamento di due parole che evidenziano un suono simile oppure uguale (ad esempio, “sedendo e mirando”), ma che a volte hanno un significato differente; nel linguaggio comune, questa figura retorica è utilizzata specialmente per fare risaltare concetti opposti: “chi dice donna dice danno”.

La rima è la somiglianza della parte finale di due parole: maestà / beltà, oppure dolente / cocente. Ad esempio, in poesia, esistono la “rima baciata” (parole finali con sillaba simile in versi consecutivi) e la “rima alternata” (parole finali con sillaba simile in versi alterni).

Le principali figure retoriche di tipo semantico sono le seguenti

L’antitesi è la contrapposizione di due parole o di due espressioni che hanno un significato contrastante (una varietà dell’antitesi è l’ossimoro): “e ardo e sono un ghiaccio” (Francesco Petrarca), “Brucia come il gelo”, “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” (Giuseppe Tomasi di Lampedusa).

L’antonomasia si ha quando un nome proprio viene sotituito con un nome comune, oppure quando un nome comune viene usato come un nome proprio: “L’eroe dei due mondi (Garibaldi)”, “Il Sommo Poeta (Dante)”.

L’ipallage consiste nel riferire grammaticalmente una parte della frase a un elemento diverso da quello a cui andrebbe accostato per il suo significato: “di foglie un cader fragile” (Giovanni Pascoli), “il divino del piano silenzio verde” (Giosuè Carducci).

L’iperbole è una figura retorica presente spesso anche nel linguaggio quotidiano; essa consiste in una espressione esagerata, per eccesso (“è un secolo che ti aspetto”) o per difetto (“esco a fare due passi”). L’iperbole rappresenta il contrario della litote.

La litote è l’affermazione di un concetto effettuata negando il suo contrario: “non bello” (cioè brutto), “non intelligente” (cioè stupido).

La metafora ha una forte somiglianza con la similitudine, ma è più sottile, implicita, abbreviata (non si utilizza il “come”). La metafora consiste nel sostituire una locuzione con un’altra molto simile ma più concisa: si usa dire “è una volpe” per significare che una persona “è furba come una volpe”. Oppure, “mia moglie è il mio faro” per fare intendere che la propria donna è così importante da guidare e illuminare il cammino.

La metonimia si ottiene sostituendo un vocabolo con un altro che abbia un rapporto di continguità con il primo: la causa usata al posto dell’effetto, il contenente usato al posto del contenuto, l’autore per l’opera, ecc. Ecco alcuni esempi: “talor lasciando e le sudate carte” (Giacomo Leopardi), “Una bottiglia di vino”, “Messo all’asta un Picasso”.

L’ossimoro si crea accostando parole di significato contrario (ad esempio “Un fragoroso silenzio”). A differenza dell’antitesi, i termini fanno parte di un’unica espressione: “nel tacito tumulto” (Giovanni Pascoli).

La preterizione si usa quando si desidera dare rilievo a qualcosa, nonostante si affermi di volerla tacere: “Non ti dico cosa mi è successo”. In sostanza, pur dichiarando di fare silenzio su un argomento, lo si esalta e lo si pone al centro dell’attenzione.

La similitudine è un paragone tra due elementi, introdotto spesso dalle espressioni “come”, “quasi”, “simile a”: ad esempio, “si ergeva alto e forte come una quercia”, oppure “sembrava quasi un animale ferito” e “con un moto simile a quello delle onde di un lago”.

La sineddoche è una particolare metonimia che indica la parte per il tutto, il singolare per il plurale, la materia per l’oggetto, operando un trasferimento di significato. Ad esempio: “il mare è pieno di vele (cioè di barche a vela)”, “il cane (nel senso di cani) è un animale fedele”, “Hai il ferro (per indicare la pistola) sotto al giubbotto?”.

La sinestesia consiste nel creare una immagine associando termini pertinenti a sfere sensoriali diverse (udito, vista, gusto, tatto, olfatto). Ad esempio, “urlo nero della madre” (Salvatore Quasimodo), “là, voci di tenebra azzurra” (Giovanni Pascoli), “Uno sguardo freddo”.

LE FIGURE GRAMMATICALI

Nell’ambito delle figure retoriche, si distinguono le figure grammaticali (o sintattiche), poiché ne rappresentano – in un certo senso – l’aspetto più dimesso, meno in contrasto con le regole e le consuetudini linguistiche, pur discostandosi dai costrutti regolari per ravvivare e rendere più colorita la prosa.
Mentre le figure retoriche riguardano in particolare lo stile o, come si dice, la retorica del discorso, le figure grammaticali riguardano più semplicemente la grammatica e la sintassi e si concretizzano con irregolarità commesse di proposito.

Le principali figure grammaticali sono

L’anacoluto è una vera e propria sgrammaticatura che consiste nel cominciare un periodo in un modo e finirlo diversamente, cambiando soggetto o introducendo un soggetto che resta poi senza verbo. Un caso insigne è il verso del Leopardi: “Nostra vita a che val? solo a spregiarla”. Qui il soggetto e l’oggetto formano un tutt’uno: La nostra vita vale solo a spregiare la nostra vita.
Altri esempi illustri li troviamo nel Manzoni: “Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro”. E ancora: “Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto”.

L’anafora consiste nella ripetizione, all’inizio di un verso o di una proposizione, della parola o dell’espressione con la quale comincia il verso o la proposizione principale: “Non s’accorge il meschin che quivi è Amore, Non s’accorge che Amor lì drento è armato” (Poliziano), “è lui che ha causato il danno, è lui che deve pagare”.

L’anastrofe è l’anticipazione o la posticipazione di un elemento della frase rispetto alla consueta struttura sintattica: “La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator” (Dante Alighieri), “all’opre femminili intenta / sedevi” (Giacomo Leopardi).

L’asindeto consiste nel coordinare vari elementi di una proposizione (?) o varie proposizioni tra loro senza alcuna congiunzione (?), ma per mezzo di virgole (?). Ciò viene fatto per conferire maggiore speditezza all’enumerazione: ad esempio, Vidi carri, cannoni, cavalli, soldati, armi, tutto in scompiglio.
Oggi è frequente anche il caso di una enumerazione senza neppure la virgola: ad esempio, Sul campo di battaglia si vedevano cadaveri rottami automezzi fuochi fumo.

Il chiasmo si determina con la disposizione incrociata di due espressioni che, sintatticamente e semanticamente, sono parallele. Affinché ci sia un chiasmo, occorrono 4 termini che si richiamano a 2 a 2, secondo una schema del tipo ABBA: “Le donne (A), i cavalier (B), l’arme (B), gli amori (A).

L’ellissi consiste nell’omettere qualche parte del discorso, che si può facilmente sottintendere: ad esempio, Lo dissi alla moglie (manca il soggetto: io); Ed io a lui (manca il predicato: dissi); Gliene diedi tante (manca la parola bòtte).La proposizione mancante del soggetto si dice ellittica del soggettto; quella senza predicato ellittica del predicato.

L’enallage consiste nell’usare una parte del discorso diversa da quella che si dovrebbe regolarmente adoperare: ad esempio, Ogni colpo è morte (si usa un nome per significare l’aggettivo “mortale”); Ammiriamo il bello (si usa un aggettivo per significare il nome “bellezza”); Parla chiaro (si usa l’aggettivo per sottindendere l’avverbio “chiaramente”); Poco mancò che non rimasi ferito (si usa il verbo al modo indicativo per esprimere il congiuntivo “rimanessi”).

L’enjambement consiste nella interruzione alla fine del verso di due elementi uniti nella metrica e nella sintassi (cioè nel significato). Il senso della frase si prolunga nel verso successivo, anziché concludersi in modo naturale. Ad esempio, il soggetto viene separato dal verbo; l’articolo dal sostantivo; l’aggettivo dal sostantivo; il verbo dal suo complemento: “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie.” (Giuseppe Ungaretti); “Vagar mi fai co’ miei pensieri su l’orme / che vanno al nulla eterno; e intanto fugge / questo reo tempo, e van con lui le torme / delle cure onde meco egli si strugge.” (Ugo Foscolo).

L‘iperbato consiste nell’invertire esageratamente la costruzione, per dare maggiore evidenza ad una parte del discorso rispetto all’altra. Per certi aspetti, l’iperbato può assumere la forma dell’anacoluto, dell’ipallage, o dell’anastrofe: ad esempio, “O belle agli occhi miei tende latine” (Tasso); “Tu dell’inutil vita,/ estremo unico fior” (Carducci); “mille di fiori al ciel mandano incensi” (Foscolo). L’iperbato è usato soprattutto in poesia.

Il pleonasmo consiste nell’usare una o più parole, non necessarie dal punto di vista grammaticale o concettuale, per dare maggior colore e risalto all’espressione. E’ molto frequente nell’uso familiare e parlato; esso si può trovare anche nella lingua letteraria e non implica di per sé una violazione di regole grammaticali: ad esempio, A me mi piace; E che m’importa, a me? Scendi giù o sali su.

Il polisindeto consiste nell’adoperare la congiunzione dinanzi ad ogni elemento, frase o semplice parola che si vuole coordinare. Si usa per dare meglio l’impressione della gran quantità di cose enumerate o del loro immediato susseguirsi: ad esempio, “E mangia e beve e dorme e veste panni” (Dante); “si spandea lungo ne’ campi di falangi un tumulto e un suon di tube, e un incalzar di cavalli accorrenti scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, e pianto, ed inni, e delle Parche, il canto.” (Foscolo).

La sillèssi o sillèpsi (detta anche costruzione a senso) consiste nel non accordare nel numero il verbo (?) con il suo soggetto (?): ad esempio, La gente dicevano; “gente di molto valore conobbi che in quel limbo eran sospesi” (Dante). Antiquata è la sillessi di relazione, in cui si accorda un verbo o un pronome con una parola non compresa nel discorso, ma facilmente deducibile: ad esempio, Non giocate, nel quale l’animo conviene che si turbi (nel quale si riferisce a gioco che è indicato solo con il verbo: giocate).

Lo zeugma consiste nel far dipendere da un unico predicato (?) due complementi (?) o due costrutti diversi, uno solo dei quali si adatta a quel predicato, come nel noto verso dantesco: “Parlare e lagrimar vedraimi insieme” (Inferno XXXIII, 9), dove vedrai si adatta solo a lagrimar, e non a parlare.

 

(Fonte https://grammatica-italiana.dossier.net/grammatica-italiana-18.htm)