DONNA CHE MOVE L’ANCA SI N’È MIGNOTTA POCO CI MANCA 1 Febbraio 2021 – Posted in: V.M.18

Mignotta è un termine dispregiativo del dialetto romanesco per indicare 

una persona che vende il proprio corpo o la propria dignità in cambio di denaro (in questo caso prostituta, meretrice, puttana) o di favori, oppure per entrare nelle grazie di qualcuno anche a discapito di altre persone. Ha quindi valore di più sinonimi.

Etimologia

La valenza originaria pare essere quella di favorita (o cortigiana) e viene fatta derivare dal francese mignoter(carezzare) o mignon (favorito).Secondo altre interpretazioni  invece l’origine del vocabolo risalirebbe ad una lettura sintetica dell’annotazione matris ignotae apposta sui registri anagrafici nei riguardi di neonati abbandonati: la nota aggiunta era anche frequentemente abbreviata in m. ignotae il che, letto in un’unica parola, portò ad indicare un certo tipo di donna disonorevole.

Nel linguaggio corrente

Nel linguaggio contemporaneo, la locuzione figlio di mignotta, assume – in senso più bonario e in special modo negli ambienti del popolino – una valenza tesa ad indicare il valore di persona particolarmente astuta in grado di ottenere benefici personali senza però curarsi delle conseguenze per le altre persone. In italiano l’equivalente può essere considerato il classico figlio di buona donna o figlio di puttana.Il termine figlio di mignotta (o anche figlio di puttana) assume però valenza differente a seconda della regione in cui viene usato e varia da un senso decisamente negativo nelle regioni centrosettentrionali ad uno vagamente positivo nelle regioni meridionali (figlio ‘e ‘ntrocchia).

Nella poesia del Belli

Giuseppe Gioachino Belli documenta, nei Sonetti, usi tuttora molto comuni del termine mignotta, come ad esempio:

  • brutta figlia di mignotta, brutale insulto contenuto nel sonetto n. 664, Mamma scrupolosa;
  • Porca mignotta!, esclamazione di rabbia (o rassegnazione) contenuta nel sonetto n. 1533, Sentite che ccaso;

Nell’opera del Belli, il termine mignotta assume molteplici significati e sfumature, in funzione del contesto in cui è inserito.

Nel sonetto n. 405, Com’ar mulo sei parmi lontan dar culo, il Belli usa l’espressione romanesca “fijji de mignotta”, come espressione di sommo disprezzo nei confronti dei cardinali cattolici (“pelo rosso”, ovvero “porporati”). Così pure nel sonetto n. 1002, Er pover’omo, dove un ecclesiastico dà dello “scansafatiche” ad un pover uomo, che lavora tutto il giorno per sopravvivere, mentre “loro“, gli ecclesiastici, non sanno far altro che farsi portare in carrozza, mangiare, bere e fottere (nel duplice significato di fare sesso e truffare), e quindi sono chiamati “fijji de miggnotte“, in quanto, per furbizia e per cinismo, riescono a convincere gli altri a lavorare al posto loro mentre loro fanno la bella vita.

L’espressione può anche essere equivalente a “poveri cristi”, come nel sonetto n. 937, Lo stato d’innoscenza, dove noi, “poveri fijji de miggnotte”, noi persone comuni, siamo innocenti: non siamo noi i responsabili del Peccato originale, bensì Adamo ed Eva.

Allo stesso modo, ma in senso ironico, nel sonetto n. 2121, La vita da cane, l’autore, per convincere il lettore di quanto sia dura la vita da Papa, domanda beffardamente: «Chi passa tutto il suo tempo a discutere con Dio Padre Onnipotente? A chi tocca dare l’assoluzione a così tanti “figli di mignotta”? Chi è che concede le indulgenze (ma è sottinteso: chi è che le vende?)? Chi la fa la fatica di andare in carrozza per benedire la gente (si intende: che lavoro duro! Che vita da cane!)?». In questo caso, l’espressione indica una grottesca inversione dei ruoli, dove le vittime della prepotenza papale diventano “figli di mignotta”, persone indegne ed ingrate, mentre il carnefice, il Papa, diventa un sant’uomo che, con generosità e sacrificio, si occupa del benessere dei suoi sudditi.

Nel sogno di un calzolaio che fantastica di diventare Papa per tre giorni, e di poter quindi fare ciò che vuole senza alcun limite (sonetto n. 1123, Er carzolaro) il Belliutilizza l’espressione per sostenere, forse con cinicosarcasmo, idee di democrazia, egualitarismo e libertà, con sfumature lievemente anarcoidi: «Gli uomini, ricchi o poveri che siano, son tutti uguali. Dunque vadano tutti a piedi (e nessuno si faccia portare in carrozza!), tutti son figli di mignotta. E allora tutti lógorino le scarpe e gli stivali (ma ci sarà sempre un calzolaio a ripararle!)»

Un sonetto che il Belli dedica esplicitamente al meretricio è il n. 616, Er commercio libbero, in cui la prostituta, che non prova affatto vergogna per il proprio mestiere, non si lamenta d’altro che di quelle donne che, osservando il lucro derivante da tale attività, le fanno indirettamente concorrenza, fingendo di essere grandi dame ma sottraendole danarosi clienti:

(it(ROM))«Bbe’! Ssò pputtana, venno la mi’ pelle:
fo la miggnotta, sí, sto ar cancelletto:
lo pijjo in cuello largo e in cuello stretto:
c’è ggnent’antro da dí? Che ccose bbelle!Ma cce sò stat’io puro, sor cazzetto,
zitella com’e ttutte le zitelle:
e mmó nun c’è cchi avanzi bajocchelle
su la lana e la pajja der mi’ letto.Sai de che mme laggn’io? nò dder mestiere,
che ssaría bbell’e bbono, e cquanno bbutta[11]
nun pò ttrovasse ar monno antro piascere.

Ma de ste dame che stanno anniscoste
me laggno, che, vvedenno cuanto frutta
lo scortico, sciarrubbeno le poste.»

(IT)

«Beh! Sono puttana, vendo la mia carne:
faccio la mignotta, sì, davanti al cancelletto:
lo prendo nel buco largo e in quello stretto:
c’è nient’altro da dire? Che cose belle!

Ma anch’io sono stata, signor cazzetto,
zitella come tutte le zitelle:
e adesso non c’è chi risparmi denaro
sulla lana e sulla paglia del mio letto.

Sai di che mi lamento io? Non del mestiere,
che sarebbe bello e buono, e quando capita la buona occasione
non si può trovare al mondo altro piacere.

Ma di queste signore che rimangono nascoste
mi lamento, che, vedendo quanto frutta
il meretricio, ci rubano i clienti.»

Fonte Wikipedia