DIARIO DI BORDO : SALAME IN BARCA 29 Gennaio 2021 – Posted in: Momenti

Cronaca di un imbarco di Paolo MONELLI

Il borghese imbarcato sopra una nave da guerra ha la vaga impressione di non avere le carte in regola.

Il comandante, gli ufficiali sono cortesissimi con lui, gli ufficiali e i marinai lo salutano al passaggio, il marinaio di guardia al barcarizzo gli presenta le armi ogni volta che sbarca e il sottonocchiero gli fa una bella fischiata che qui è segno di omaggio; sì, tutto bene, ma ha la vaga impressione di non avere le carte in regola.

Parla con gli ospiti dei viaggi che ha fatto sulle navi da carico e di lusso, i porti stranieri che ha toccato, quella volta a Terranova d’America, quell’estate alle Svalbard, quella mareggiata nell’Oceano Indiano, si fa un pubblico, è ascoltato con cortesia, ma sente che c’è un diaframma fra lui e gli ospiti, qualche cosa che lo tien lontano, che lo isola, che lo costringe a un esame di coscienza, che gli fa temere di non avere le carte in regola.

⚓ – UNA STRANA OFFICINA

I suoi vestiti sono forse la stonatura minore; poiché in navigazione le uniformi subiscono comode alterazioni, molti ufficiali sono in tuta e si mettono sul capo un berrettino da sci alla norvegese, la gente ha un paio di pantaloni da fatica e una maglietta scollacciata.

Ma tutto l’andamento della vita di bordo, le costumanze, il linguaggio, il modo di alloggiare, le occupazioni della gente gli sono strane.

Prima di tutto le traversate dell’Atlantico fatte gli restano nella memoria come un mutevole spettacolo di mare e di nuvole veduto da comodissime poltrone a sdraio; a bordo, ora, non trova una poltrona, una sedia, uno sgabello su cui sedersi, se non andando sotto coperta.

Sopra coperta ogni oggetto su cui si possa anche fuggevolmente sedere è rigorosamente proibito.

I marinai sono come i cavalli che si riposano in piedi; a bordo non si sta che in piedi, in piedi si conversa, si legge, si prende il sole, si studiano le carte e i portolani; solo per l’Ammiraglio hanno preparato un seggiolone che sta fra la sedia del dentista e quella del barbiere, e glielo tengono sul suo ponte di comando, ma non ci si siede mai, pensa che se ci si mettesse lo prenderebbero per un invalido.

In piedi fanno la prima colazione, e anche quando consentono a sedersi par che lo facciano a malincuore; alla mensa il comandante in seconda che la presiede, appena ha terminato di mangiare, dà un’occhiaia in giro, si assicura che la maggioranza sia alla fine, non gli importa nulla se c’è in corso una bella discussione, una conversazione fiorita, si alza subito e dà il rompete le righe come se la sedia fosse fatta di spini.

Il borghese è sempre in dubbio se si trovi sopra una officina o in un appartamento alla vigilia di Pasqua quando si fa la pulizia grossa.

La quantità, la complessità, la misteriosità delle macchine e degli ordegni lo sgomenta.

Motorini e motoroni ronzano continuamente, si vede gente maneggiare ignoti strumenti, vi fanno vedere che a muovere questa leva sul ponte di comando qualche cosa succede all’altro capo della nave, che il moto e il puntamento dei cannoni è comandato da un’aerea scatola d’acciaio in cima al torrione, che ci son congegni che sommano, sottraggono, calcolano angoli e ascisse e ordinate e correggono da sé gli errori della stima delle distanze e del tiro.

Strana officina, dove si vede pochissima gente, e che muta aspetto più volte al giorno.

Quello che di giorno è un corridoio vasto e pulito, orlato di rastrelliere di moschetti, di notte è un dormitorio gremito; puntali travicelli di ferro detti sergenti sono usciti non si sa di dove, da essi pendono in due piani le brande che son fatte come amache.

Ci saranno a bordo di questa corazzata Cavour milleduecento uomini e non s’immagina dove stiano ficcati; camerate non ce n’è, i ponti sono quasi sgombri, a poppa e a prora ci sono due vasti piazzali che paiono deserti.

Ma se s’incomincia a girar per la nave si trovan uomini negli angoli più remoti, in fondo alle cale o a riva degli alberi, in oscuri cantoni, in nicchie anguste, davanti a strane macchine, dentro a pozzi che si sprofondano inverosimilmente, intenti a oscuri lavori, a ermetici gesti.

La gente che si vede sopra coperta generalmente sciacqua, scopa, dà la vernice e lucida gli ottoni.

S’incomincia la mattina presto a gettare mastellate d’acqua sulla coperta e a strofinarla con frettazzi e redazze; ma poi per tutta la giornata non si vede che lucidar ringhiere e strofinare maniglie e imbiancare pareti e nettare mitragliatrici e toglier la gromma al pavimento della poppa che è di assicelle di legno e pitturare, zoccoli e lavare corridoi e scalette.

Dalla mattina alla sera la gente spazza, dipinge lucida, pulisce, ripassa, rilava.

⚓ – PAROLE BANDITE

Si dice volentieri del cittadino che sale per le prime volte a bordo di una imbarcazione che è come un salame in barca.

Sulla nave da guerra l’impressione di essere un salame in barca non v’abbandona mai.

Tranne quei due piazzali di poppa e di prora, tutto il resto della nave è incredibilmente ingombro, zeppo di ordegni, di cassoni, di cilindri, di strani rigonfiamenti delle pareti, di oggetti disparatissimi entro cui dirigersi è faticoso e complicato.

Non si riesce a far dieci passi in linea retta, ogni momento dovete contorcervi per passare sotto quella sporgenza, snellirvi per ficcarvi in quella botola; vi tocca scavalcare soglie rialzate, sbucare sotto a un cannone, insinuarvi fra bombole d’aria compressa.

Si ha sempre l’apprensione di fare un guasto, di attaccarsi a un sostegno che non è un sostegno, di infilarsi per una via proibita.

Poi c’è l’idioma.

  • Le cose non si prendono, non si afferrano, ma si agguantano.
  • Non si aggancia, ma s’incoccia; non si sgancia, ma si scoccia.
  • Non si fa unа legatura, mа una trinca, nоn si tira, ma s’ala, non si allenta, ma si allasca, quando addirittura non si molla in bando.
  • Una nave che busca è una nave che”incoccia” nel cattivo tempo.
  • Chi va a dormire va a tirare un bordo.
  • Una carrucola è un bozzello o una pastecca, e anchе uпa bella ragazza e pastecса, е un buon figliolo è un pasteccone.
  • Un secchio è un bugliolo, e un mastello è una baia; una ringhiera è una battagliola. Un’imbarcazione non parte né prende il largo, ma scosta.
  • Guai se vi lasciate scappar di bocca remare, cabina, destra, prua, barca; si deve dire vogare, camerino, dritta, prora, lancia.
  • Corda, fune, spago, sono parole bandite; si deve dire cima, cavo, gomena, sagola, gherlino, relinga, merlino, matafione e via stravagando.
  • La spazzola che pulisce il ponte è un frettazzo; e redazza è una specie di scopafatta con pezzi di cima (vedi sopra) che serve, come mi erudiscono questi marinai, a spargere uniformemente la sporcizia su tutta la coperta.
  • La saletta che serve agli ufficiali per mangiare, per giocare a tressette, a scopa, per conversare e leggere e scrivere, quello che per borghesi è il circolo, si chiama quadrato.
  • Rizzare un oggetto significa assicurarlo bene perché non si muova seguendo i movimenti della nave, insomma perché non si sposti e non si rizzi.
  • Andare a riva non significa andare a riva, ma salire in cima all’albero.
  • I marinai non sono in libera uscita, ma franchi a terra.
  • Un marinaio intero sapete tutti cos’è, ma il mezzonarinaro è un bastone munito di gancio per far accostare la lancia alla banchina o al barcarizzo, quello con cui il ganzèr a Venezia accosta le gondole.

Tutto questo linguaggio te lo servono senza ostentazione, ma senza prendersi il minimo disturbo per rendertelo più comprensibile; ascoltando due marinai conversare delle faccende della nave, ti par di sentire il padre Guglielmotti che parla con Daniello Bartoli.

Però qualche volta il profano la spunta sul competente.

Da quando un nostromo lesse nel vocabolario del Petrocchi che “nostromo è un uomo rozzo e brutale che conduce la ciurma alla manovra” vituperò sì il vocabolarista con tutti i moccoli appresi dai suoi maggiori, ma non volle più saperne di essere chiamato nostromo; e ora preferiscono esser chiamati primi nocchieri.

Questi begli ufficiali che vanno in su e giù per la nave, in questo tempo dell’anno vestiti di candissime uniformi, taluni con la sciarpa turchina a tracolla, questi marinai intenti a pacifiche rassettature e ripuliture, hanno l’aria di non far nulla di serio o d’urgente; e al contrario sono retti da una ferrea disciplina.

Ma è coraggiosa civetteria di questa milizia, il mostrar di non sentir peso, il sobbarcarsi ilari ai duri servizi, ai seccanti sacrifici.

Ecco la nave ormeggiata o attraccata; il porto è amico, la mattinata è chiara, la città straniera è tutta inviti, nuova, allettante, con gli antichi edifici, con il verde dei giardini e dei colli che l’avvolgono, con affettuosa gente sulle banchine.

Parrebbe naturale che tutti scendessero a godersela, e restassero sulla nave i soli indispensabili. Non è così.

Per tutta la mattinata e fino al pomeriggio avanzato nessuno sbarca, se non gente comandata per servizi urgenti; il comandante, gli ufficiali, i sottufficiali, i marinai restano a bordo, fanno le loro faccende ordinarie, i marinai fregano gli ottoni, scopano, lavano, verniciano, i sottufficiali vanno in giro a cercare grane, a comandar uomini di qua e di là, ad aizzar squadre perchè corrano su e giù, gli ufficiali guardan la riva o si recano da un capo all’altro dello spiazzo di poppa con l’aria di chi passeggia in Galleria, o si chiudono nel camerino, o si mettono una tuta da lavoro e si perdono nella profondità della nave; e nessuno sbarca.

La nave resta più caserma che mai.

Picchetti armati percorrono ogni tanto la coperta a passo di parata per cerimonia od onori; segnali di tromba vengon su dai boccaporti, ogni dieci minuti un altoparlante diffonde in ogni cantone della nave istruzioni e ordini, o cerca il marinaio Dormiente che vada subito dal tenente medico o il sottocapo Caputo perché monti alla mostra; marinai inginocchiati nei corridoi davanti al loro armadietto mettono in ordine il loro corredo, si cuciono le calze, ripiegan bene l’uniforme che hanno lavata in un mastello e asciugata al vento degli estrattori di caldaia (arnesi che aspiran l’aria calda dalle macchine) e stesa sulle ghie, e servirà stasera a far la mafia per le vie della città straniera.

Ora non crediate che la nave che appare di fuori così netta e splendente sia il palazzo di Maga Alcina.

Il borghese trova che è un po’ scomoda; i marinai la trovano scomodissima, non che se ne lamentino, ma lo fanno capire con la sollecitudine con cui s’informano se l’ospite non è morto di caldo in camerino, come ha fatto a respirare con l’oblò chiuso – guai se l’apriva, un po’ d’onda di traverso gli avrebbe rovesciato in camerino mezzo Mediterraneo -, se non gli danno fastidio i puntali e i sergentismontati la mattina presto quando si disfanno i dormitori, e il fregare dei frettazzi sulla testa e il trascinar delle baie e il ronzare delle pompe e il picchiare e lo sbattere e il rimbombare continuo e l’angustia dello spazio, e il non poter sedere.

Il borghese protesta di no, che sta benissimo, e davvero trova a questa vita un suo fascino sportivo; non dormì egli sotto la tenda e nei bivacchi delle Alpi, e nella zeriba africana, e nel sacco sahariano?

Ma l’ospite ha un lievissimo sorriso, oh un nulla, solo un brevissimo tremito ai due lati della bocca.

Ma il borghese ha capito subito che cosa pensa il cortesissimo ospite di lui: “salame in barca.”

(Fonte Supplemento alla Rivista Marittima del giugno 2020 curato da Enrici Cernuschi e Andrea Tirondola. “Paolo Monelli – Giornalista tra i marinai – Corrispondenza da bordo 1939–1942”. Immagini tratte liberamente da Google)