PAROLE CON UN SIGNIFICATO NON PENSABILE 28 Aprile 2021 – Posted in: Parole – Tags: , , , , , , , , , ,

Da Ok a Wi-fi: 6 parole che forse non hanno il significato che pensiamo

Ci sono parole, che usiamo tutti i giorni, alle quali abbiamo sempre attribuito un significato o una certa etimologia. Invece in questi casi la realtà è un’altra.

E invece no, non è così. O meglio: il significato che abbiamo attribuito nel tempo a queste parole, acronimi e non, non è quello che avevano in origine. Perché se alcuni neologismi hanno un’etimologia precisa e verificabile, alcune delle parole che usiamo correntemente sono solo figlie di un guizzo creativo, e non hanno alcune senso apparente. Ecco 6 esempi illuminanti.

WI-FI. Si pensa che che la parola Wi-Fi sia sinonimo di “wireless fidelity”, proprio come, nel campo dell’audio, Hi-Fi lo è di high fidelity (alta fedeltà). Tuttavia, secondo Alex Hills, tra i creatori delle prime reti Wi-Fi non è così. La parola fu coniata solo per ragioni di marketing.

Le specifiche tecniche utilizzate dalle reti wireless appena create (descritte da uno standard che ha un nome, IEEE 802.11, che è tutto un programma!) erano poco orecchiabili. Nel suo libro, Wi-Fi and the bad boys of radio, Hills ricorda che i membri della Wi-Fi alliance hanno scelto la parola principalmente perché suonava bene, e il legame naturale tra Hi-Fi e Wi-Fi probabilmente ne ha aiutato la diffusione. Ma le due parole non hanno nulla a che fare l’una con l’altra e non sono in alcun modo collegate.

SOS. Un po’ tutti abbiamo sentito dire che SOS sia l’acronimo di Save Our Souls (Salvate le nostre anime) o, secondo qualcun altro, Save Our Ship (o Salvate la nostra nave in italiano). La verità è che il popolare acronimo della ricerca di aiuto non significa nulla di tutto ciò, ma nasce dal segnale universale nel codice morse di tre punti, tre trattini e altri tre punti. Introdotta ufficialmente nel 1905 dal governo tedesco, questa sequenza è infatti facilmente riconoscibile anche per l’orecchio inesperto. Questo a suo tempo fu ritenuto importante, in quanto avrebbe permesso alle navi in ​​acque straniere di inviare la richiesta di aiuto senza doversi preoccupare di eventuali… barriere linguistiche.

Per altro, lo stesso segnale in codice morse può essere espresso in vari modi: le sequenze IJS, SMB e VTB, per esempio, danno vita a una stringa di punti e trattini praticamente uguale a quella prodotta da SOS. Tuttavia quest’ultima, alla fine, l’ha spuntata sulle altre sigle perché era più facile da ricordare e, forse, anche perché può essere letta in qualsiasi verso. Insomma, le interpretazioni di possibili significati che coinvolgessero anime e navi, sono arrivate solo dopo…

Il palazzo Kodak a Rochester (Stati Uniti), quartier generale dell’azienda diventata famosa nel campo della fotografia. © Shutterstock

KODAK. Anche il marchio Kodak, uno dei più noti tra i fotografi, non ha un significato reale. Qualcuno ipotizzò che la parola Kodak fosse la rappresentazione onomatopeica del suono prodotto da un otturatore quando si scatta una foto.

Ma in realtà pare che il fondatore della compagnia, George Eastman, abbia coniato la parola semplicemente perché gli piaceva la lettera K: “una lettera forte e incisiva”. Eastman ha così optato per il nome Kodak perché ha pensato che fosse anche abbastanza semplice da non essere mai pronunciato male e sufficientemente distintivo da non essere confuso con un’altra parola. E poi di K ne conteneva ben due!

OK. Secondo lo Smithsonian Institute, le origini di OK, la parola più comune della lingua inglese (ma adottata anche da altre lingue, italiano in primis) non sono del tutto chiare. Ma una teoria comune e altamente plausibile è che sia stata coniata come un gioco di parole, senza un significato reale. Un giornalista del Boston Morning Post aprì il caso con un articolo sull’ortografia nel 1879, dove suggeriva che OK fosse un acronimo di “Oll Korrect”, un deliberato errore ortografico di All Correct (tutto giusto), e che questo abbia poi contribuito al definitivo sdoganamento nel lessico popolare americano.

Ma le ipotesi non finiscono qui. OK potrebbe derivare dal gergo dei militari (inglesi o americani) inviati in perlustrazione per contare o recuperare i corpi dei soldati rimasti uccisi in battaglia. Di ritorno dalla perlustrazione, per comunicare tempestivamente il numero, scrivevano su una bandiera la cifra, seguita dalla lettera K (da killed che in inglese significa “uccisi”): se nessuno era morto sventolavano la bandiera con scritto “O K”, ossia zero soldati uccisi. Una genesi analoga potrebbe avere prodotto il gesto, ormai universale, con cui oggi comunichiamo il nostro OK: in questo caso i soldati, mimando lo zero con il pollice e l’indice, intendevano comunicare
che non si contavano morti. Un’altra possibilità, infine, è che l’espressione abbia avuto origine in Europa o in Medio Oriente, dal momento che anche le tribù beduine del Sahara sembravano averne familiarità.

ZUMBA. Il nome di una delle discipline più popolari nelle palestre ha una storia bizzarra. Prima di essere conosciuto come Zumba, il programma di fitness era conosciuto come Rumbacize, una “parola macedonia” prodotta da Rumba (che in spagnolo significa danza) e da Jazzercise, un programma di esercizi simile popolare negli anni ’90. I problemi sorsero, tuttavia, quando il creatore di Zumba, Alberto Perez, provò a registrare il marchio Rumbacize e scoprì che era già stato registrato furtivamente dal proprietario di una palestra in cui insegnava. Così si mise alla ricerca di una parola che colpisse. Zumba gli sembrò la scelta giusta, anche se fino ad allora non esisteva e… non significava nulla.

ALITOSI. Le pubblicità dei collutori oggi citano l’alitosi come il nemico da battere: eppure nonostante il termine evochi un che di scientifico… la parola “alitosi” di scientifico non ha proprio nulla. O meglio: il termine non esisteva finché titolare dell’azienda Listerine, negli anni ’20 del secolo scorso, tentò di commercializzare un prodotto in grado di fare tanto da antisettico quanto da sapone per i pavimenti. Fu un fallimento.

Così Jordan Wheat Lambert (così si chiamava) decise di cambiare strategia e di commercializzare il suo prodotto come cura contro l’alito cattivo. E per convincere il pubblico ad acquistare il suo Listerine, Lambert perlustrò il dizionario e si imbatté in una vecchia parola latina che significa respiro, alito, che modificò in alitosi per attribuirle un alone di… malattia. L’azienda pubblicò poi una serie di annunci in cui sostenevano che l’alitosi era un problema cronico che affliggeva l’America, per il quale solo loro avevano la cura

(Fonte bit.ly/2R41UUv)