Shon Dong Hyuk – L’Unico Sopravvissuto 17 Aprile 2025 – Posted in: Biografie, Lo Sapevi che – Tags: #Camp14, #campidiconcentramento, #Campo14, #CoreaDelNord, #DirittiUmani, #DittaturaCoreana, #Documentario, #Lager, #Memoria, #ShinDongHyuk, #StoriaVera, #StoriePotenti, #TestimonianzaVera, #Umanità, Shin Dong Hyuk, sopravvivenza
Il ragazzo che fuggì dall’inferno per una coscia di pollo
C’è un posto nel mondo dove la parola “famiglia” non esiste. Dove il concetto di “amore” è considerato superfluo. Dove nascere non è una benedizione, ma una colpa ereditaria.
Quel posto si chiama Campo 14, in Corea del Nord. Ed è lì che è nato Shin Dong-hyuk, il solo uomo conosciuto a essere venuto al mondo e fuggito da un campo di concentramento nordcoreano.
Sua madre non lo desiderava. Non perché non volesse un figlio, ma perché non ne aveva la libertà. Era stata “concessa” a un uomo come premio per il lavoro ben fatto.
In quel luogo, l’unico affetto concesso era quello dell’obbedienza cieca verso le guardie. Shin non sapeva cosa volesse dire sentirsi amato, protetto, accarezzato. Cresceva tra punizioni, fame, e paura.
Il suo primo ricordo non è un compleanno, né un gioco, ma un’esecuzione pubblica. Aveva appena quattro anni quando fu costretto, insieme a migliaia di altri prigionieri, ad assistere alla morte di un uomo.
Le guardie ridevano, mangiavano carne e bevevano alcol. Per Shin era una giornata come le altre. A scuola vide una bambina morire sotto i colpi di un insegnante. Aveva solo nascosto dei chicchi di grano nella borsa.
La fame era l’unica costante. Il cibo veniva ridotto per ogni errore. Un cucchiaio di riso al giorno, tre volte. Una briciola diventava oro. Una foglia rubata significava il rischio di essere fucilati.
E in mezzo a quella miseria, un giorno Shin vide qualcosa che non riuscì a sopportare. Vide sua madre dare del cibo al fratello. Lui, che da lei non aveva mai ricevuto nulla.
Fu un gesto che accese in lui una rabbia feroce. Corse da una guardia e li denunciò. Mentì, dicendo che volevano scappare. Gli fu promesso un pasto abbondante.
Invece trovò la tortura. Fu arrestato, bendato, picchiato per ore. Appeso per le braccia, bruciato, affamato, umiliato. Le sue braccia oggi sono storte.
Le cicatrici sulla schiena non andranno mai via. Ma fu proprio in una cella buia che Shin incontrò qualcosa di sconosciuto: la gentilezza.
Un vecchio prigioniero curava le sue ferite, lo aiutava a urinare, lo lavava. Shin non sapeva che le persone potessero aiutarsi. Era la prima volta che provava qualcosa simile all’empatia.
Quando fu liberato, trovò suo padre ad attenderlo. Entrambi furono portati a una nuova esecuzione. Quando le bende vennero tolte, Shin vide sua madre impiccata e suo fratello fucilato.
Non pianse. Era solo arrabbiato. Gli sembrava colpa loro, se aveva sofferto tanto.
(Disegno di un prigioniero)
Un uomo che parlava del mondo esterno. Raccontava cose incredibili: abiti colorati, libertà di parlare, libertà di ridere. Ma nulla colpì Shin quanto una frase: “Fuori, puoi mangiare un pollo intero. Anche solo una coscia.”
Fu in quel momento che Shin decise di fuggire. Non per la libertà. Non per giustizia. Ma per una coscia di pollo!
Durante una raccolta di legna, lui e il suo amico corsero verso la recinzione elettrica. Il suo compagno fu fulminato. Shin gli salì sopra, usò il suo corpo come trampolino, e corse.
Corse fino a quando le gambe non lo sostennero più. Quando si svegliò, era nel mondo esterno. Il silenzio era strano. La gente rideva, parlava. Nessuno gridava “compagno Kim!”.
Shin non capiva. Rubava cibo, e imparò che bastava un pezzo di carta colorata per comprarlo. Carta con dei numeri, che lì fuori chiamavano “denaro”.
Oggi vive in Corea del Sud. Viaggia, parla in pubblico, racconta la sua storia a politici che applaudono. Ma ogni volta che fa la doccia, guarda le cicatrici sul corpo e prova rabbia.
Gli piacerebbe indossare dei pantaloncini, ma la pelle bruciata sulla schiena lo rende insicuro. La notte dorme poco. Spesso sogna la sua vecchia cella. Dice che non riesce sempre a raccontare la sua storia. È stanco. Molto stanco.
Una volta ha detto una frase che gela il sangue: “Nel campo, tutti volevano vivere. Qui fuori, tutti vogliono morire.” Non riesce a capire perché in Corea del Sud, dove c’è tutto, la gente si suicidi.
Lui, che ha vissuto l’inferno, sogna solo una vita semplice. Vorrebbe tornare a coltivare un campo. Non per ideologia. Non per nostalgia. Ma per tornare a sentire che il frutto della sua fatica è reale. Che una vita può avere senso anche senza applausi.
A volte dice che gli manca la sua innocenza. Quella terribile, crudele innocenza con cui è cresciuto. Dove non esistevano scelte, ma almeno c’era una direzione. Dove tutto era spietato, ma semplice. Dove non c’erano dubbi.
Il documentario che racconta la sua storia si chiama “Camp 14 – Total Control Zone”, e andrebbe visto almeno una volta nella vita.
Per ricordarsi quanto può essere brutale l’essere umano, ma anche quanto può essere forte. Quanto può resistere. Quanto può, nonostante tutto, sognare una coscia di pollo e vivere abbastanza a lungo da mangiarla.
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