ITALUM ACETUM 8 Settembre 2022 – Posted in: Lo Sapevi che – Tags: , , , , , , , , ,

Italica mordacità

Gli antichi romani avevano un carattere insolente e sarcastico, scherzi e frizzi facevano parte della loro quotidianità e le loro battute, spesso dallo spirito acre e caustico, non risparmiavano nessuno, tanto da spingere il poeta latino Orazio a parlare di ‘Italum acetum’ (italica mordacità), espressione celeberrima adoperata ancora oggi.

Dagli sberleffi non venivano preservati nemmeno gli imperatori o i grandi condottieri. Durante le sfilate degli eserciti vittoriosi attraverso il centro di Roma i legionari amavano farsi beffe dei loro generali cantando i “carmina triumphalia“.Nel corso della parata trionfale del 46 a.C. i soldati per canzonare Giulio Cesare intonarono: “Cittadini, sorvegliate le vostre donne: vi portiamo il calvo adultero”, allusione alla vita licenziosa del loro comandante, grande collezionista di amanti, e alla sua prominente calvizie.

Da anni giravano per Roma voci secondo le quali Cesare in gioventù fosse stato l’amante di Nicomede, re di Bitinia. I suoi legionari, durante il trionfo seguito alle conquiste d’oltralpe, lo festeggiarono con un motto arguto: “Cesare ha sottomesso la Gallia, mentre Nicomede ha sottomesso Cesare!

Cicerone, che non perdeva occasione per fare battute anche abbastanza acide contro nemici e avversari, alludendo alla disinvoltura nell’orientamento sessuale del conquistatore delle Gallie lo definì “Il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti“. Il che suggerisce che Cesare non si fosse limitato solo al re di Bitinia.

E quando, anni dopo, in senato il grande condottiero, nel perorare la causa della figlia di Nicomede, accennò ai benefici ricevuti dal padre, Cicerone disse sarcastico: “Passiamoci sopra, in quanto è ben noto cosa tu abbia dato a lui e lui a te“.

I romani erano maestri nella creazione di nomignoli spesso ironici, utilizzati anche per punzecchiare nemici o rivali politici.

Gli avversari soprannominarono derisoriamente Cesare “Regina di Bitinia“.

I commilitoni di Tiberio, quando il futuro imperatore era ancora un soldato, per prenderlo in giro deformarono il suo nome Tiberius Claudius Nero, in Biberius Caldius Mero, alludendo alla sua fama di forte bevitore, amante del vino caldo e puro (merum).

L’odierna inclinazione umoristica al soprannome tipicamente capitolina risale ai tempi degli antichi romani che utilizzavano attributi fisici o caratteriali, anche poco lusinghieri, come soprannomi, col passare del tempo diventati cognomi veri e propri.

Soprannomi illustri

Cicerone doveva il suo “cognomen” alla verruca circolare (a forma di cece, appunto) di un suo oscuro antenato.

Si racconta che, agli esordi della sua carriera politica, gli amici gli sconsigliarono di utilizzare un cognomen tanto buffo, ma l’arpinate rispose che “avrebbe fatto sì che esso diventasse più noto di quello degli Scauri e dei Catuli“, il che la dice lunga sulla consapevolezza delle proprie capacità.

Il poeta Publio Ovidio Nasone, tra i principali esponenti della letteratura latina e della poesia elegiaca, è l’antenato illustre di tutti gli ignoti Er Frappa o Er Nasca (come in romanesco vengono soprannominate le persone con un naso particolarmente grosso), mentre Quinto Orazio Flacco, letteralmente «dalle orecchie flaccide», lo è dei moderni Er Flappe.

Cicerone diceva che in una città così pettegola nessuno era al riparo dalle maldicenze. E lui era il primo a riversare il suo umorismo nei discorsi pubblici come nella vita privata. A volte esagerava, tanto che secondo Plutarco il vizio di mettere in ridicolo chiunque gli capitasse a tiro lo rese odioso a molti.

Certamente a Voconio, che un giorno, accompagnato dalle sue bruttissime figlie, si imbatté in Cicerone, il quale commentò impietoso: costui ha fatto figli contro la volontà di Febo Apollo.

Chiacchiere maligne circolavano sulla fedeltà della moglie di Crasso a causa della forte somiglianza di uno dei figli a un certo Assio: un giorno, al termine di uno splendido discorso tenuto in senato dal triumviro, Cicerone espresse in lingua greca il suo elogio: “Axios Krassou”, è un discorso degno di Crasso. Ma i presenti capirono altro.

A Metello Nepote che in una discussione gli chiese più volte: “Ma tu, Cicerone, di chi sei figlio?”, l’oratore rispose: “A te tua madre ha reso troppo difficile questa risposta”: la madre di Metello, racconta Plutarco, non aveva costumi irreprensibili.

Dopo la disfatta dei Pompeiani a Farsalo, Cesare vendette all’asta i loro beni. Servilia, mamma di Marco Bruto e amante di Cesare, ottenne per quattro soldi una tenuta di grande valore, e Cicerone la fulminò: Servilia si è procurata il terreno con lo sconto della terza parte: tertia deducta. Ma Terzia era anche il nome di una figlia di Servilia, moglie di Gaio Cassio Longino, e perciò Cicerone intendeva dire, con un’allusione assai pesante, che Servilia non si era limitata ad essere l’amante di Cesare ma, per conquistare completamente il suo favore, gli aveva procurato anche i favori di sua figlia Terzia.

Un’altra volta, a proposito di una matrona piuttosto attempata che dichiarava di avere solo una trentina d’anni, commentò: “Deve essere senz’altro vero, sono già vent’anni che glielo sento ripetere“.

Cicerone con la sua mordace comicità non risparmiava neppure i parenti.

Un giorno, veduto il marito di sua figlia Tullia, Lentulo Dolabella, piuttosto basso di statura, andare in giro con una lunga spada appesa in vita, l’oratore esclamò: “Chi ha legato mio genero a quel ferro?“.

Alquanto bassino fu anche suo fratello Quinto. Attraversando la provincia d’Asia, che Quinto aveva amministrato, Cicerone lo vide raffigurato in un busto di grandi dimensioni, secondo la moda: “Mio fratello”, esclamò ironico l’oratore, a metà è più grande che tutto intero“.

Il senso dell’humour del popolo romano

Il popolo romano aveva un forte senso dello humour, amava battute e barzellette, doppi sensi, allusioni, giochi di parole, caricature.
Si dice che gli stessi imperatori accettassero di esser presi in giro, però da gente di classi sociali umili, mal volentieri dai nobili. In realtà ci furono imperatori di spirito ed altri meno.

Augusto aveva uno spiccato senso dell’umorismo. Un giorno al gobbo console Galba che lo aveva invitato a correggerlo nel caso in cui avesse commesso degli errori, l’imperatore rispose che avrebbe anche potuto correggerlo ma non certo raddrizzarlo.

Famosa una battuta pronunciata da un provinciale: a Roma era arrivato un uomo molto somigliante ad Augusto e per questo motivo aveva attirato l’attenzione di tutti.

L’imperatore ordinò che l’uomo fosse condotto al suo cospetto. Dopo avergli dato un’occhiata, gli chiese: “Dimmi, giovanotto, tua madre è mai stata a Roma?” “No”, rispose questi.

Poi, non contento, aggiunse, “Ma mio padre sì, spesso”. L’aneddoto fa capire che Augusto era il tipo d’uomo che accettava una battuta anche sulla sua stessa paternità.

Meno spiritoso era Commodo, descritto dagli storici come stravagante, crudele e depravato. Nel 192 d.C. lo storico Cassio Dione si trovava assieme ad altri colleghi senatori al Colosseo, dove si svolgeva un’esibizione dell’eccentrico imperatore. A un certo punto il sovrano uccise uno struzzo al centro dell’arena, lo decapitò e si avvicinò con atteggiamento minaccioso alla tribuna dei senatori con la testa del povero animale in mano.

La scena provocò una certa ilarità tra costoro, ma per evitare di scoppiare a ridere apertamente Dione si mise a masticare delle foglie di alloro della sua corona, immediatamente emulato dai compagni.

L’umorismo era il protagonista indiscusso delle conversazioni in strada e in taverna. I muri degli edifici di Pompei abbondavano di graffiti pieni di scherzi, invettive e caricature di persone reali.
Quando Ventidio Basso raggiunse una delle più alte cariche, qualcuno, alludendo alle sue origini di mulattiere, scrisse per le vie di Roma: «Accorrete, àuguri tutti e aruspici! È avvenuto proprio adesso un prodigio straordinario: quello che strigliava i muli è stato eletto console!».

Gli epigrammi di Marziale

Grande successo ebbero gli epigrammi satirici di Marziale, infarciti di battute con cui il poeta spagnolo prendeva di mira con il suo spirito caustico i difetti fisici e caratteriali dei suoi contemporanei: “Quinto ama Taide”. “Taide quale?” “Taide la guercia”. “A Taide manca un occhio, a Quinto tutti e due”.

Curiosamente, la prima vera e propria raccolta di barzellette risale solo al IV, V secolo d.C. È scritta in greco, si intitola Philogelos, letteralmente “l’amante della risata”, e contiene circa 270 storielle di vario tipo.

Secondo alcuni studiosi essa era destinata a coloro che allietavano le cene e le feste narrando queste freddure, magari ampliandone il testo prima della battuta finale, allo scopo di tenere allegri i commensali e guadagnarsi l’invito anche alle cene successive. Infatti, quella del buontempone era una vera professione, che permetteva di scroccare, in cambio di un umorismo poco raffinato o addirittura volgare, lauti pasti alle mense dei potenti e dei ricchi.

Oggetto di dileggio erano i difetti fisici (i sofferenti d’alitosi), quelli morali (pigri, vili, avari, inetti, scorbutici, ubriaconi, misogini), ma anche gli abitanti di alcune città (Sidone, Cuma, Abdera) ed inoltre gli studiosi pedanti, gli intellettuali sempre con la testa tra le nuvole.

Insomma un’antologia che dimostra come, nonostante il trascorrere dei secoli, i difetti fisici e caratteriali capaci di suscitare il riso e il sorriso sono rimasti gli stessi di duemila anni fa.

(Fonte FB Storia e Storie)